Scuola e cultura digitale: dove stiamo andando?
Un concetto chiave che ho definito in uno degli ultimi articoli dedicati al Digital Divide: in Italia non esiste solo un problema tecnico. C’è un ritardo per quanto concerne la banda larga di ultima generazione, ma l’ADSL base è presente quasi sul 100% del territorio nazionale. Il problema, però, è soprattutto culturale. Se il […]
Un concetto chiave che ho definito in uno degli ultimi articoli dedicati al Digital Divide: in Italia non esiste solo un problema tecnico. C’è un ritardo per quanto concerne la banda larga di ultima generazione, ma l’ADSL base è presente quasi sul 100% del territorio nazionale. Il problema, però, è soprattutto culturale. Se il 34% della popolazione nazionale non ha mai utilizzato internet, se il 50% delle famiglie italiane paga una connessione ADSL contro l’83% del Regno Unito, la colpa non è delle disponibilità economiche (le tariffe per una connessione flat a Internet sono accessibili). In Italia manca una vera e propria cultura digitale, manca una spinta alla conversione delle azioni quotidiane: manca soprattutto una scuola che sappia infondere alle nuove generazioni l’importanza delle nuove tecnologie. Tecnologie che non devono essere usate solo per impegnare i pomeriggi con giochi e chat. Il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, è stato chiaro: durante il suo discorso agli studenti – pubblicato guarda caso su Youtube – il presidente ha tracciato un percorso: non fatevi ingabbiare dalle tecnologie, non limitatevi ad acquistate telefonini e app. Imparate a programmare, creare, riprodurre. Governate la tecnologia, non lasciate che vi governi. Un discorso del genere in America ha senso perché l’istruzione è legata alla cultura digitale: la stessa cosa si può dire per l’Italia? No. L’Italia anche in questo caso è il fanalino di coda dell’Europa. Anche se la cultura digitale nelle scuole dovrebbe essere l’investimento chiave per costruire una società all’avanguardia, ma soprattutto una società a proprio agio con quelli che saranno i mezzi che determineranno lo stacco tra chi possiede o meno gli strumenti per...
Branded Content: non solo pubblicità
C’è un problema sostanziale nel lavoro che molte aziende fanno con il branded content: valutano questa occasione, questa nuova frontiera della comunicazione, come una semplice opera pubblicitaria. Pensano di sfruttare questi contenuti come comunicati stampa, o forse come article marketing. In realtà il branded content deve seguire una regola semplice. Semplicissima. Ma al tempo stesso […]
C’è un problema sostanziale nel lavoro che molte aziende fanno con il branded content: valutano questa occasione, questa nuova frontiera della comunicazione, come una semplice opera pubblicitaria. Pensano di sfruttare questi contenuti come comunicati stampa, o forse come article marketing. In realtà il branded content deve seguire una regola semplice. Semplicissima. Ma al tempo stesso articolata per chi non vuole abbandonare una logica vecchio stampo: branded content non vuol dire pubblicità. Basta interruzioni pubblicitarie Tu paghi per pubblicare un contenuto, ma in realtà non pubblicizzi un bene o un servizio, e non entri in casa delle persone (in questo caso nel feed o sulle bacheche Facebook) per dire “Compra questo prodotto”. Leggi le parole di Jon Steinberg, presidente di Buzzfeed, uno dei portali più famosi nel settore di branded content: We would never run a piece of advertising like, ” Buy this stuff now for $ 9. ” We do not do what I call ” shouts in a vacuum . ” It has to be about a message . There Has to be reciprocity. The brand Has to give some content or something of interest in exchange for a little bit of attention. Chiaro? Non troverai mai sul sito qualcosa che somigli alla vecchia pubblicità. C’è bisogno di reciprocità, di scambio equo: vuoi l’attenzione del lettore, del potenziale cliente? Perfetto, devi dare qualcosa. Devi dare un contenuto che possa attirare l’attenzione. La linea di Buzzfeed: storytelling D’altro canto Buzzfeed è una delle realtà più lungimiranti nel settore del branded content, tanto da iniziare il Social Storytelling Creator Program. Ovvero un programma per formare le agenzie che vogliono collaborare con...
Il digital divide passa dalla banda larga
Siamo abituati a legare il concetto di digital divide a luoghi lontani dal centro del potere: il digitale definisce l’economia, la nuova economia, ma anche il flusso di informazione. C’è chi ha le notizie giuste per affrontare il mondo contemporaneo – per decifrare l’economia, la società – e chi no. La possibilità di accedere a […]
Siamo abituati a legare il concetto di digital divide a luoghi lontani dal centro del potere: il digitale definisce l’economia, la nuova economia, ma anche il flusso di informazione. C’è chi ha le notizie giuste per affrontare il mondo contemporaneo – per decifrare l’economia, la società – e chi no. La possibilità di accedere a queste informazioni definisce la qualità della vita di un popolo: il passaggio di informazione è potere, un potere sempre più incisivo. Quindi il digital divide come qualcosa legato a luoghi e popoli diversi. Bene questa idea è deformata (guarda caso) da una conoscenza errata, distorta della reale condizione della banda larga in Italia. Ovvero di quella tecnologia che permette di caricare e scaricare informazioni via Internet in tempi rapidi. Un tempo c’era il modem a 56k ed era difficile lavorare: oggi l’ADSL, che viaggia sempre attraverso il doppino telefonico ma permette di ridurre i tempi in modo drastico. Il problema è che in Italia la diffusione (non solo tecnologica) della banda larga è ancora in estremo ritardo. Un po’ di chiarezza Cosa intendiamo esattamente per banda larga? Secondo Wikipedia, vengono etichettate in tal modo connessioni a velocità anche molto diverse (2Mbit/s, 4 Mbit/s, 8Mbit/s), ma di solito tutte sopra il Mbit/s. Ancora una precisazione: Il Telecommunication Standardization Sector dell’ITU ha definito la banda larga come una capacità trasmissiva maggiore del primary rate ISDN, cioè 1.5 (negli USA) o 2 Mbit/s in Europa L’Europa si dirige velocemente verso una banda larga di seconda generazione, ma l’Italia rimane fanalino di coda. I dati sono poco rassicuranti: solo il 18% degli abbonati italiani può usufruire di una connessione di...
Ello cambierà il mondo dei social?
Forse lo conosci, forse no: si chiama Ello, ed è una nuova piattaforma social. Ricorda vagamente Facebook perché ha una bacheca sulla quale puoi pubblicare degli aggiornamenti (testo, immagini), ma al tempo stesso prende le sembianze del microblog. Ecco, in alcuni casi ricorda Tumblr. Il motivo è semplice: alla base c’è una community con la quale […]
Forse lo conosci, forse no: si chiama Ello, ed è una nuova piattaforma social. Ricorda vagamente Facebook perché ha una bacheca sulla quale puoi pubblicare degli aggiornamenti (testo, immagini), ma al tempo stesso prende le sembianze del microblog. Ecco, in alcuni casi ricorda Tumblr. Il motivo è semplice: alla base c’è una community con la quale condividere aggiornamenti, idee, pensieri ed opinioni. Ma ci sono anche gli strumenti tipici di un blog: puoi scrivere post più articolati di Facebook, formattati con cura e con anchor text per i link. Anche l’estetica si collega a quella di un blog: testata con immagine personalizzabile, barra laterale con gli amici e i comandi, area centrale dedicata agli aggiornamenti… Basta nuovi social In realtà, parere personale, c’è poco spazio per un altro social. Per quanto possa essere valido e interessante, Ello deve rispondere a una domanda ben precisa: cosa può aggiungere allo scenario già avviato? E deve rispondere a questa domanda da un punto di vista individuale e da quello aziendale: c’è chi investe tempo nei social e i vantaggi devono essere chiari. Certo, Ello è il social senza pubblicità. Questo è un punto a favore rispetto a Facebook. E permette di far nascere interazioni nei post che pubblichi (sì, ci sono i commenti e no, non c’è un tasto mi piace o simile): personalmente lo vedo adatto per chi vuole raccogliere una community, un gruppo di persone motivato a interagire, in una realtà che non sia Facebook e Twitter. Ad esempio un’azienda potrebbe usare Ello per intavolare discussioni con i clienti affezionati. Non per comunicare notizie (per quello c’è Twitter) o per promuovere sconti...










